martedì 6 dicembre 2011

# 11 - Giorno 47.






Morirebbero gli alberi, foglie come pensieri, cadrebbero silenziose. Ogni cosa impegnata nel suo ritorno alla terra, radici e braccia, corteccia e pelle, di qualcuno e da qualcuno abbandonati, e stesi sul muschio bagnato, ci ameremo e aspetteremo che faccia buio.’



Oggi il freddo è più freddo.
Il vento gelido di un mare che non conosco fuori dal vetro, e all’orizzonte solo acqua, acqua e nient’altro.
Il lenzuolo è profumato, e la mia cartella clinica è sul tavolino di fianco alla mia branda. Non credo di avere la forza per aprirla.

Ieri ci siamo svegliate alle 6.00. Abbiamo corso un’ora in più. L’altra sera la Ventiquattro non ha rispettato gli orari del coprifuoco, e quando è tornata in dormitorio loro erano già lì.

Quando se ne sono andati, se la sono trascinata dietro a peso morto. Dopo, non so cosa sia successo.
La Ventiquattro ieri mattina non correva con noi, ad ogni modo.

47 giorni e poche ore, e tutte le altre ancora non sanno perché si trovano sull’isola, e neppure quando potranno tornare a casa.

Ci sono poche regole da seguire, tra queste, non chiedere mai perché ci si trova sull’isola. 
Non riesco a ricordare il giorno in cui mi hanno portata via.



C’era il sole, la prima volta che mi sono svegliata nella mia branda. Si vedeva il mare dalla finestra, quella volta, ed era estate. Sapevo che sarebbero venuti a prendermi, prima o poi, mia madre me ne aveva parlato. Non pensavo che sarebbero arrivati così presto, ma ero certa che sarebbe accaduto prima del mio ventunesimo compleanno.

Non facevo domande, non mi lamentavo delle razioni di cibo e neppure delle coperte troppo pesanti, o del materasso troppo sottile. Dal mio primo giorno, con fatica e sacrificio, mi sono abituata all’isola, alle sue regole, ai suoi orari, alle sue stranezze.

Altre non sono state fortunate come me. Forse le loro madri non hanno mai fatto in tempo ad avvisarle che sarebbero arrivati per loro, e così si sono semplicemente svegliate in un luogo oscuro e sconosciuto, e avranno certamente pensato che le uniche spiegazioni plausibili fossero il rapimento, la sperimentazione, progetti governativi di natura a loro incomprensibile. Trovare una motivazione valida a tutto questo sarà stata per loro la sfida più grande. Alcune hanno trovato conforto nelle loro convinzioni, altre non si sono ancora rassegnate. Altre come la Ventiquattro.

La prima volta che mi hanno portata nella stanza blu ho avuto paura. Pensavo che volessero cominciare subito con il trattamento. Quelle che l’avevano già cominciato avevano un aspetto diverso da quello di noi altre. Ogni volta che uscivano dalla stanza blu, dopo ogni seduta, qualcosa in loro era diverso. Il loro sguardo si svuotava un po’ di più. Quando entravano nella stanza per l’ultima seduta, non uscivano dalla porta principale. Le portavano fuori dall’altra porta, e nessuna di noi poteva vedere di quanto ancora si fosse svuotato lo sguardo, per l’ultima volta. Non ci è dato sapere che fine abbiano fatto le ragazze dalla numero 1 alla numero 10. In poco più di un mese sono sparite, tutte quante.
La prima fase del trattamento ha cambiato il mio aspetto, non credevo avesse cambiato nulla più di questo. Ho cominciato a perdere i capelli dopo la prima settimana, e ho fatto richiesta di poter tagliare quelli rimasti. Non ci è dato sapere nemmeno cosa ci sia all’interno delle siringhe che ci iniettano in vena ogni martedì. Mi è sempre piaciuto pensare che si trattasse di un placebo, di qualcosa di inoffensivo per l’organismo. Ho trovato conforto in questa, di convinzione.

Non ho mai cercato di darmi risposte a riguardo. Mia madre mi disse, prima del 24 luglio, prima che mi portassero via, che per riuscire a sopravvivere avrei dovuto accettare di buon grado qualsiasi cosa mi capitasse da quel momento in poi. Così ho fatto.

Alla prima riunione collettiva hanno consegnato a ciascuna di noi il regolamento. Niente amicizie, niente relazioni sentimentali tra detenute omosessuali, niente tentativi di fuga e rispetto assoluto del coprifuoco. Niente resistenza ai trattamenti e niente domande a riguardo. Sono stati molto chiari su quel che non si poteva fare. Non lo sono stati altrettanto su quel che invece si poteva fare.

Tre giorni fa ho infranto una regola, ho chiesto il permesso per poter uscire dopo il coprifuoco per poter passeggiare vicino alla riva. Quando il permesso mi è stato negato, ho finto di addormentarmi, e a tarda notte sono uscita dal dormitorio.

Ho studiato l’isola per quasi due mesi, e non ho trovato neppure una singola telecamera di sorveglianza. Una volta arrivata sulla riva, mi sono resa conto che le misure di sicurezza erano inesistenti. Nessun filo spinato e nessuna rete di confine. Nessuna guardia di pattuglia e neppure allarmi o cose del genere. Credo che l’unica risposta sia che dall’isola, comunque vada, nessuna riuscirà mai ad andarsene per conto proprio.

Quando mi hanno trovata sulla spiaggia mi hanno portata nella stanza blu. Non ho provato dolore mentre mi tenevano ferma e mi picchiavano. Sapevo che era già successo con altre e sapevo che sarebbe capitato anche a me, prima o poi. Per quanto sia sempre riuscita a mantenere la calma, per quanto sia sempre stata tra le prime a rispettare il regolamento, la curiosità mi ha spinta oltre, e ne ho pagato le conseguenze. 

Le guardie che diventano ladri. Una vecchia storia che si racconta per impressionare la gente. Per noia, per sfizio. Imprigionati loro, quanto noi. Quando hanno finito con me, hanno trovato la Trentadue a fumare una sigaretta fuori dal perimetro di controllo, e le hanno riservato lo stesso trattamento.

Il giorno dopo, durante il pranzo, mi hanno comunicato che quella del pomeriggio sarebbe stata la mia ultima seduta di trattamento. Mi hanno pregato di radunare i miei effetti personali, di disfare il letto e di consegnare le mie lenzuola alla lavanderia. Non ho dovuto salutare nessuna delle ragazze, loro sapevano che non mi avrebbero rivista e viceversa, e qualsiasi cosa mi aspettasse, così andava bene.

Nella stanza blu mi hanno fatta sdraiare. Il sangue pulsava sotto la mia pelle con più forza dove c’erano i lividi della sera prima. Il labbro spaccato sanguinava ancora quando mi hanno iniettato l’ultima dose di paradiso, sparata dritta in vena. La mia ultima dose di placebo, un liquido magico del quale non avrei mai saputo nulla. Se si trattasse di una medicina o di veleno, non l’avrei mai scoperto, continuavo a pensare. Sapevo che mi avrebbero portata fuori dalla seconda porta, e il mio sguardo svuotato di ogni significato umano non l’avrebbe visto nessuno, mai. Credevo anche questo.

Quando mi sono svegliata, stamattina, il rumore delle onde era più forte. Il vento, più freddo.
Guardo fuori dall’oblò. Non ricordo di essere salita su questa nave.
Davanti a me una distesa infinita di acqua e solo una certezza.
Me ne sono andata dall’isola.

Prendo la cartella clinica con la mano destra.
La apro.
Davanti a me, l’unica ragione plausibile per la quale gli ultimi due mesi della mia vita sono trascorsi su quell’isola, nero su bianco.

Improvvisamente quel liquido senza nome che mi è stato iniettato da due mesi a questa parte, prende forma e si riversa nelle mie vene, diventa parte del mio sangue e arriva fino al cuore.

Mia madre mi aveva detto anche questo, prima che mi portassero via.
Mi aveva detto che c’era una millesimale possibilità che un giorno io riuscissi a leggere la parola ‘guarigione’ sulla mia cartella clinica.

Solo ora, comprendo le sue parole.

E quando le braccia della terra cingeranno i nostri corpi inermi, rinasceremo nella luce del mattino, abbracciati come uno.”

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