martedì 15 novembre 2011

# 7 - La strada verso casa.




Colonna sonora: Velvet Underground - Pale Blue Eyes (consigliamo l'ascolto durante la lettura).



Nella notte, la neve continuava a cadere.

Il treno viaggiava, cristalli di acqua congelata appoggiati al finestrino diventavano niente.

Freddi i piedi, fredde le mani, freddo dentro e fuori, freddo tutto quel che era lui, rannicchiato nel giaccone di malinconia che lo copriva solo in parte, lasciando scoperta quella parte di lui che nessuno avrebbe mai conosciuto, quella fatta di microscopiche particelle di verità, unite tra loro. Se ne muoveva una e si muovevano tutte, e si scontravano e in quei momenti diventava vero e semplice, e nessuno l’avrebbe capito mai, e nessuno l’avrebbe carpito mai, quell’impercettibile moto d’anima.

Le due e il treno correva, e lui fermo, a pensare che la distruzione non aveva fatto altro che portarlo ad altra distruzione, e di costruire non ne avrebbe capito mai un accidente.


Le tre e il treno correva, e abbandonare tutto era stata di certo la migliore idea di sempre.

Colonie di fiocchi di neve si disintegravano velocemente sul vetro appannato del finestrino. Caldo dentro, freddo fuori ma freddo ancor di più là sotto, dove quel ragazzino rinsecchito dal berretto di lana dormiva per finta.

Vedere le montagne, questo doveva fare. L’unica cosa giusta dopo l’abbandono era di certo quella, si sarebbero sentiti soli per davvero, su quelle montagne, e poi niente più di quello. Neve a perdita d’occhio e picchi irraggiungibili, e la certezza che la solitudine sarebbe stata l’unica compagnia per tanto tempo, fino alla fine del mondo.

Quante vite, quante mani. Aveva attraversato foreste di persone, tante solitudini alla ricerca di qualcosa che a lui non serviva più.

Le quattro e il treno continuava il viaggio verso la montagna, e le mani più fredde di prima, e riscaldamento di lacrime a motore, e desolazione e poi nient’altro, sotto a quel maglione infeltrito.

Montagne di pelle sotto a quel maglione, costole come pendii, nèi come puntine su una cartina di paesi sconosciuti ancora da visitare. I buchi della cintura più numerosi, una tacca in meno per ogni kilo vittima di noncuranza, perché non era a se stesso che doveva pensare. Mani come rami secchi e gambe come giunchi a sorreggere quaranta kili e sempre meno di ragazzo desertificato.

Aveva detto ciao mamma, aveva detto ciao papà, ciao a tutti io vado via. E loro, altri, avevano sorriso perché nessuno se ne va dicendo ciao, le persone se ne vanno dicendo addio. Lui l’addio l’aveva sempre visto come un mostro famelico, che quando sei finalmente lontano, ti sveglia nel cuore della notte e ti dice torna indietro, hai ferito tutti quanti, e allora devi tornare.

Quando dici ciao nessuno si aspetta nulla e lui non sarebbe tornato e l’inverno sarebbe passato per tutti ma per lui no, inverno lo sarebbe stato sempre, e lui voleva così.

Gli occhi di ghiaccio sotto al berretto di lana e tra le mani un ciondolo, e nel ciondolo una promessa da mantenere. Portami a casa, aveva detto lei. Lui la riportava a casa. Se l’erano portata via ma lui l’aveva trovata e l’aveva portata con sé a sua volta e stavolta l’avrebbe portata nel posto giusto.

Sul sedile opposto, un corpo ancor più gracile, una bambina di respiri e i respiri di quella bambina riempivano lo scompartimento e il freddo non era poi così freddo.

Manca poco, ripeteva lui. Tra poco arriveremo, non preoccuparti. Lei piccola, lui grande nelle sue decisioni. Ti sto riportando a casa, non torneranno, non torneranno, ripeteva.

Le cinque e il treno si fermò. Lui scivolò fuori dal suo giaccone e vi rientrò una manica alla volta. Coprì la bambina e la bambina si aggrappò a lui silenziosa, e si incastravano alla perfezione, le mani piccole di lei e le spalle di lui.

Siamo arrivati, siamo a casa.

Casa non era lontana ed era vicina, e i due fratelli proseguirono fino alle montagne, e si addormentarono nella vecchia casa di legno, e crebbero insieme, e le tacche sulla cintura ora erano di meno e i respiri erano di più.

Lui aveva sempre paura che tornassero a prenderli, ma non lo diede a vedere nemmeno una volta, non una soltanto, e per tanti anni la bambina non ebbe più paura di rivederli, e i mostri non erano che un brutto ricordo, che quando tornavano li cacciavano via soffiando e basta.

Non tornarono per tanti anni, e quando decisero che era il momento di tornare, gli altri non c’erano più. Due solitudini unite in un segreto, un segreto di bambini, bambini mai più.

I mostri non esistono, ti proteggo io, diceva lui. I guanti piccoli di lei incastrati alla perfezione intorno al collo del fratello. Casa è dove siamo noi. Casa è dove vogliamo, dove ci piace di più.

Al mondo esisteva ancora del buono, ed era bello che risiedesse proprio in loro, cuccioli d’uomo in viaggio verso qualcosa.

Non abbandonarmi mai, diceva lei. Non dirmi mai ciao, supplicava. Non ti dirò mai ciao, promise lui. Ti terrò sempre vicina, qui, sarai la mia piccola cosa che porterò sempre con me, dentro al giaccone.

Nel tuo giaccone va bene, diceva lei.

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